Antonella Cilento

Accade sempre qualcosa di inaspettato alle lezioni di Antonella Cilento, chi ha avuto la possibilità di capitarci, anche solo qualche volta, lo sa. S’impara a scrivere, certo, ma soprattutto si cresce in un cammino, perché possiamo anche “aver invaso i supermercati con le nostre storielle, vinto premi, essere stati blanditi e applauditi eppure non aver capito un accidenti della vita”.

‘La caffettiera di carta’ è molto più di un manuale di lettura e di scrittura creativa…

La caffettiera di carta, molto più di un manuale di lettura e di scrittura creativa, edito da Bompiani, raccoglie l’esperienza trentennale di una grande autrice, insegnate e maieuta. In un vero canto d’amore per la letteratura.

Partiamo dal fondo, per così dire, de La caffettiera di carta, che in qualche modo raccoglie almeno un po’ di quella “sinfonia delle anime” di migliaia di persone che ha incontrato nei suoi trent’anni di insegnamento a Lalineascritta. Lei dice che “troppo s’impara insegnando”, può raccontarci qualcosa di questo “troppo”?

L’incontro con molte anime è sempre di grande potenza: la maggior parte degli scrittori e delle scrittrici, come molti artisti, fatica a esporsi al mondo creativo altrui: restare concentrati sul proprio è già un grande sforzo, si sente il bisogno di restare protetti, si sospetta l’invasione.

‘Insegno a scrivere per aiutare le persone a trovare la propria voce’

A me è invece sempre sembrato sin da bambina che lo scambio produca profonde e positive trasformazioni e che si possa lavorare sui confini, i miei e gli altrui: insegno a scrivere per superare blocchi e apprendere tecniche, per aiutare le persone a trovare la propria voce, come io ho dovuto superare blocchi e imparare tecniche e imparare a conoscermi.

In questa interazione scopri quanto le persone, di ogni età e provenienza, siano assetate: tengono la loro anima in disparte, come un’estranea, non la coltivano e, se trovano qualcuno che porge loro una mano per uscire dalla solitudine e dalla opacità, dalla scarsa concretezza di sogni e progetti, spesso ci si aggrappano.

Così la maieuta, l’insegnante diventa il luogo delle proiezioni, la persona da sfidare, da tirare giù nel tuo cunicolo, il termine di paragone e la colpevole di ogni nostro fallimento.

Questo da un lato.

Dall’altro se, come spesso per fortuna accade, l’interazione è felice e chi studia la propria scrittura sa tenere i confini, né la rabbia né la competizione, consapevoli o inconsapevoli, trovano spazio: qui inizia il vero scambio e si fiorisce insieme.

Ogni buon insegnante sa che s’impara più di quanto s’insegni

Ma ogni buon insegnante, quale che sia la materia che affronta, sa che s’impara più di quanto s’insegni, anno dopo anno: s’impara l’umanità, apprendi le persone.

Così, dopo un po’, sai cosa accadrà in anticipo e raramente ti stupisci, eppure di continuo accadono cose nuove e illuminanti.

S’insegna uno strumento e quello strumento si chiarisce ogni giorno di più ai tuoi occhi man mano che cerchi di chiarirlo ad altri. In questo spazio condiviso la scrittura, con tutte le sue regole e i suoi trucchi, diventa però un grande spazio meditativo, quel che dovrebbe essere ogni arte: si medita quando in aula andiamo in libera scrittura e ognuno si espone alle proprie parole nude ma si medita anche quando ragioniamo sulle strutture e le svolte delle storie.

La pagina e la trama sono fotografie, a volte ecografie, della nostra condizione profonda e possiamo solo accettarle ma anche curarle, farle crescerle, noi siamo la nostra, continua, trasformazione.

All’origine della sua conversione definitiva alla scrittura, lei cita un racconto di Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, letto da bambina, che le fece scoprire che la letteratura poteva parlare perfino di lei, dei suoi occhiali, della sua miopia. Quali sono i libri, o i racconti, che anche adesso le cambiano la vita e perché?

Dopo tanti anni ci sono libri che torno a leggere e che illuminano la strada perché hanno acquisito senso ulteriore: continuano a cambiarmi la vita le riletture di Ortese, dove torno come a un bagno di consapevolezza.

Leggo o rileggo romanzi di alcune grandi scrittrici dimenticate del Novecento, come Lalla Romano

Leggo o rileggo romanzi di alcune grandi scrittrici dimenticate del Novecento: quasi nessuno legge più Lalla Romano, ad esempio, ma anche Elsa Morante è quasi sempre per le persone solo “L’isola di Arturo”, ma di rado i suoi racconti o “Menzogna e sortilegio”. Trovo fulminanti, fra gli autori recenti, i libri di Benjamin Labatut e quelli di Carmen Maria Machado e alcuni di Jeanette Winterson. Trovo straordinarie Clarice Lispector e Han Kang e notevolissimo Serjei Gospodinov. E rappresenta un grande riferimento anche per le nuove letture che incontro l’indispensabile Giuseppe Montesano.

Ma se da bambina la lettura mi rivelava mondi che stavo appena sfiorando man mano che crescevo –  e questo mi capitava come una vera rivelazione, ad esempio, con Mishima e torna a succedermi come un evento di dimensioni universali ogni volta che rileggo Bulgakov, o accade quando la letteratura ti è affine come una parentela, come con Stevenson – oggi ci sono libri che semplicemente arrivano al momento giusto.

Mentre sto scrivendo una storia e mi serve un riferimento, mentre sto cercando una storia e una fila di collegamenti, anche eclettica, si rivela improvvisa come un filone d’oro.

Allora seguo un libro, poi un altro, poi un altro ancora (e non si tratta sempre di narrativa, spesso sono libri d’arte o archeologia o filosofia) e trovo la risposta o la soluzione alla questione narrativa o personale che avevo posto.

Oggi per me la letteratura non è più solo la caverna di Alì Babà, dici la parola giusta ed entri, ma un viaggio sciamanico

Oggi per me la letteratura non è più solo la caverna di Alì Babà, dici la parola giusta ed entri, ma un viaggio sciamanico, dove segni e simboli e tragitti compaiono, come in sogno, continuamente, per dirmi chi sono e dove vado.

In tanti oggi scrivono, per lavoro, per farsi conoscere, per avere successo… per mille motivi, ma spesso si tratta di uno scrivere veloce, superficiale. Lei dice una cosa controcorrente: che ‘scrivere è meditazione’, che significa?

In qualche modo ho risposto già prima ma è importante tornarci: sperare che l’arte ci renda ricchi o famosi è legittimo ma anche molto ingenuo, è un pensiero della giovinezza che però denota scarsa ambizione.

La vera ambizione è nel fare al meglio una certa cosa, scrivere o danzare o dipingere o suonare, e scomparire nell’atto. Come far l’amore: l’apice della felicità è uno svanimento, la gioia assoluta e priva della nostra presenza razionale dell’orgasmo.

Ogni disciplina artistica, come tutte le discipline meditative, insegna che l’oggetto ben fatto conta, e continueremo a tentare di farlo al meglio, ma solo per il viaggio che fino a lì abbiamo compiuto, dentro e fuori di noi.

Scrivere è, certo, anche un lavoro, è anche uno strumento che ci rende visibili ma il suo unico senso è nel gesto di creazione profondamente invisibile che avviene in noi.

Dopo un po’ di anni trascorsi a lamentarsi per le occasioni mancate e per quel che gli editori fanno o non fanno a cosa serve aver fatto se non ci ha fatto crescere?

Oppure: possiamo aver invaso i supermercati con le nostre storielle, vinto premi, essere stati blanditi e applauditi eppure non aver capito un accidenti della vita.

Un’opportunità persa, in fondo.

“Pre scrivere occorre stare scomodi, conservare uno sguardo ferito”, da La caffettiera di carta

Per scrivere occorre stare scomodi, dice a un certo punto, conservare uno sguardo ferito, perché? E lei come lo conserva questo sguardo ferito?

La scomodità è essenziale: se si comincia a scrivere solo quel che già sappiamo scrivere, se ci mettiamo al sicuro compiendo i gesti, anche tecnici, che già conosciamo non ne verrà fuori nulla: pagine autocompiaciute, storie pencolanti, mancate esplorazioni.

Per scrivere bisogna prima vedere cosa c’è: e questo è molto scomodo nella maggior parte dei casi. Scomodissimo.

Vedo chi sono, vedo le parti di me che non voglio mostrare, vedo il fallimento, vedo lo squilibrio, vedo anche la follia. Bene. E adesso lavoriamo intorno a questo bordo aperto: la ferita resta sempre aperta, anche se lavoriamo per rimarginarla, per curarla.

Le ragioni per cui ognuno di noi scrive sono misteriose ma fino a un certo punto: cosa non abbiamo potuto dire, chi non ci ha ascoltato, quali ingiustizie ci sembra di aver subito. E insieme: quali meraviglie vedo che intorno a me, come automi, i miei simili sorpassano senza apprezzare. Bisogna restare svegli nel sogno per poter scrivere, poiché come dice Calderòn, la vita è tutta un sogno.

A un certo punto lei cita un brano di Julio Cortázar, secondo il quale “un racconto si muove su quel piano dell’uomo dove la vita e l’espressione scritta di quella vita ingaggiano una lotta fraterna (…) e il risultato di quella lotta è il racconto stesso”. A volte sembra che in questa lotta possa soccombere la vita – per il tempo e i sacrifici richiesti dallo scrivere – altre volte, all’inverso, la scrittura. Questa lotta come può essere fruttifica, sia per l’una che per l’altra contendente?

Cortázar in questa bellissima frase si riferisce alla lotta che compiamo perché un evento reale che ci ha suggestionato si trasformi e trasfiguri in narrazione, perché non possiamo, come dice Borges, rappresentare la vita reale qual è, né limitarci a usare la letteratura già scritta ma dobbiamo operare una trasformazione alchemica in cui la vita si distilla in un gesto d’invenzione.

Borges chiama il gesto d’invenzione ‘la terza tigre’, fatta di noi e delle nostre, esclusive, uniche parole

Borges chiama questo gesto, una volta realizzato, la terza tigre, che non è né quella che corre nella jungla e uccide, né quella, poniamo, di Salgari nei suoi romanzi, ma una tigre nostra, fatta di noi e delle nostre, esclusive, uniche parole.

Però la sua domanda mi pare ci porti invece nel tempo che dedichiamo alla scrittura, che spesso occorre sottrarre alla vita reale: se ci sembra di aver tolto qualcosa alla vita reale dedicando tempo alla scrittura allora non abbiamo inteso il senso vivo di questo gesto. Scrivere è una forma di disciplina di cui o abbiamo bisogno come l’aria, o la stiamo corteggiando senza intenzione di sposarla.

Una volta abbracciata questa disciplina, come altre, non ci sarà alcuna competizione con la vita di ogni giorno, le due cose sono una, non c’è gara ma integrazione.

E tuttavia, la maggior parte delle persone che seguono i miei corsi gridano che non hanno tempo, che non ce la fanno, che se avessi più tempo allora…

Il tempo siamo noi, il tempo di ognuno è la scelta che ognuno fa.

Finché siamo sul bordo e non scegliamo, tutto ci sfuggirà. Bisogna avere coraggio e consapevolezza, prendere un bel respiro e stare nel proprio destino. Il carattere è il nostro destino, scrive Eraclito.